La situazione di Gaza — con orizzonti di accordi di ‘cessate il fuoco’ sempre evanescenti, il permanere di condizioni geopolitiche regionali assolutamente critiche, la impotenza delle iniziative delle Nazioni Unite, le domande apertissime sul grado di autonomia delle Corti internazionali competenti — non permette stime ottimiste su possibili soluzioni. Mentre ci si augura che questo pessimismo sia smentito, soprattutto, o almeno, per quanto riguarda la tragicità inumana delle sofferenze inflitte al popolo palestinese, il Tribunale Permanente dei Popoli (TPP) ritiene opportuno riassumere nei punti che seguono la propria posizione su quanto è successo a partire dal 7 ottobre 2023: per ‘render conto’ di quello che può essere stato letto come un inspiegabile silenzio, ma ancor più per esprimere e condividere un ‘giudizio dalla parte dei popoli’: in coerenza con quanto lungo questi mesi è emerso dal consenso di tantissimi movimenti, soprattutto giovanili, e culminato nella protesta in corso, ed incredibilmente repressa con le motivazioni varie e pretestuose delle piazze e delle Università degli USA, di UK, e di tanti altri paesi.
L’attacco di Hamas ai kibbutz confinanti di Israele il 7 ottobre 2023 è stato, al di là di tutte le contraddizioni informative che ne hanno descritto l’eccesso di violenza, qualificato unanimemente come un crimine contro l’umanità. Con un accordo altrettanto chiaro sul fatto che non si è trattato di un evento inatteso, ma l’espressione tragica di rivolta di quella nakba iniziata in coincidenza con la violazione, 75 anni fa, degli accordi internazionali che prevedevano la costituzione di due Stati per due popoli, e proseguita, senza interruzione e con una violenza crescente di negazioni di ogni accordo di pace e di ‘operazioni’ fatte di bombardamenti, massacri, espulsioni ed occupazione di terre e popolazioni palestinesi.
La reazione al 7 ottobre da parte dello Stato di Israele, con una guerra mirata esplicitamente a distruggere Hamas, si è tradotta in un attacco globale contro la popolazione civile della striscia di Gaza la cui cronaca, pur documentata con infinite limitazioni e la morte di tanti giornalisti e testimoni di organizzazioni umanitarie, si è trasformata nello ‘spettacolo pubblico’ di una escalation bellica così incurante della morte di migliaia di civili da apparire animata da un intento genocidario. Le evidenze della ‘sproporzione’ intollerabile della ‘risposta’ all’attacco di Hamas si sono accumulate in un crescendo di orrori inumani che hanno obbligato anche le Nazioni Unite a prendere posizione chiedendo, inutilmente, di considerare opzioni di tregua o di cessate il fuoco. L’urgenza con cui la Corte internazionale di Giustizia ha risposto alla denuncia del Sud Africa ha confermato la gravità assoluta del comportamento dello Stato di Israele ed il riconoscimento che quanto succedeva a Gaza era una violazione assoluta del diritto internazionale ed esigeva un cessate il fuoco immediato e l’avvio di un giudizio formale ed indipendente dei fatti, in cerca di soluzioni che impedissero che la ‘plausibilità’ del carattere genocidario della strage divenisse una evidenza ‘beyond any reasonable doubt’. L’ipotesi di una attivazione di una iniziativa del Tribunale Permanente dei Popoli, che si era immediatamente considerata, diveniva in questo contesto apparentemente ovvia, ma assolutamente ridondante. Non solo le ‘evidenze’ non potevano essere più visibili: quanto succedeva a Gaza, e nel contesto geopolitico internazionale — che allargava la responsabilità di Israele alla connivenza esplicita e decisiva degli Stati Uniti, la impotenza degli organi-istituzioni delle Nazioni Unite, il coinvolgimento del silenzio, e perciò della progressiva complicità, diretta ed indiretta, di attori della comunità internazionale — trasformava Gaza nella documentazione esemplare di un quadro più complessivo e profondo di una società internazionale ‘svuotata’ della sua capacità di riconoscimento, difesa, promozione del diritto fondamentale alla vita dei popoli concreti, quando questi popoli sono trasformati in ‘oggetto-vittime-strumento di conflitto’ tra poteri legalmente costituiti.
L’ ‘evoluzione’ dell’iniziativa militare punitiva messa in atto da Israele da guerra di sterminio militare alla negazione di accesso anche alle minime risorse ‘umanitarie’ (cibo, acqua, interventi sanitari essenziali) facilmente disponibili, le evidenze di pratiche di tortura e di esecuzioni di massa, la cancellazione programmata delle più elementari condizioni di convivenza, ha dato ai dibattiti sulle definizioni giuridiche dei crimini un significato ancor più tragico: essere umani, anche bambini, per migliaia, non conta ufficialmente più nulla, se si è nemici, terroristi: il tempo delle trattative può essere infinito, legale, inevitabile: e nessuno deve ‘rispondere’ per quanto succede. E le cortine di fumo sulle categorie storiche di antisemitismo, sionismo, o sulla memoria di altri genocidi sono perfettamente funzionali a rendere invisibili ed irrilevanti gli umani.
Il popolo palestinese è il nucleo più visibile del popolo trasversale costituito da tutti quei popoli-umani che entrano, rimangono, muoiono nei vuoti del diritto internazionale degli Stati.
Un Tribunale Permanente dei popoli non ha nulla da aggiungere alle evidenze di un genocidio, che non ha bisogno di un giudizio giuridicamente fondato per essere qualificato come esempio di qualcosa che non dovrebbe esistere. E lo Stato di Israele, con tutti i suoi complici, diretti ed indiretti, non ha bisogno di una condanna, più o meno solenne o formale, per essere considerato responsabile. Se e quando Gaza sarà oggetto di una sentenza di un Tribunale si tratterà di un momento ‘significativo’, ma sarà troppo tardi, e sostanzialmente ambiguo. La società internazionale che riesce a tollerare di essere spettatrice, per un tempo che è già tutto in eccesso rispetto a minimi standard di civiltà, è già responsabile di tutto quanto è successo. La sua impunità (per Gaza e per tutti i popoli che Gaza, e Cisgiordania, rappresentano) è un dato di fatto per il quale non serve una nuova, più o meno diversa, Norimberga. Non ci sono vincitori che possano erigersi a giudici. Le tante piazze e manifestazioni di tutti i tipi, ‘per la Palestina’, soprattutto di quei giovani che chiedono un futuro non solo contro qualcuno, ma per un progetto di pace, chiedono il coraggio e la trasparenza di un diritto internazionale capace di essere dalla parte dei popoli. Non come un giudice che guarda al passato, ma che crede nella necessità e possibilità di pensare – creare – sperimentare un diritto internazionale che non sia ‘garanzia-consiglio di sicurezza’ dei potenti che hanno fiducia solo nelle armi e nella guerra.
Nella sua posizione di minoranza, di tribuna di visibilità e voce dei tanti popoli palestinesi, il TPP può solo fare, e soprattutto essere, con la sua pratica, questo augurio. Ponendo in evidenza con le proprie sentenze, il più possibile in tempo reale, il giudizio che i popoli danno sulle violazioni subite attraverso la loro resistenza e l’indicazione delle loro priorità. I bisogni inevasi e violati di diritto sono ben contestualizzati, ma soprattutto sottolineano i vuoti dottrinali ed operativi del diritto, non per constatarli, ma proponendo risposte concrete e pertinenti, che non corrispondono a normative che rispondono ad interessi ‘altri’, calati dall’alto di interessi politici ed economici, funzionali a nuovi colonialismi.
Con la tragicità delle loro storie i tanti ‘popoli palestinesi’ hanno avuto in Gaza la visibilità assoluta del loro ruolo di essere l’unica ’scuola’ possibile per un diritto internazionale che deve sentirsi in ricerca urgente di credibilità. Anche, se mai sarà possibile, con un giudizio-condanna che restituisca fiducia ad un’idea di civiltà non rassegnata all’arbitrio impunito ed impunibile dei potenti. Ma soprattutto che garantisca — prospetticamente, come parte della sua identità più profonda, con la sua presenza in tempo reale nella conflittualità delle lotte — la inviolabilità della vita dei popoli e della loro autodeterminazione.
Il TPP, con tutti i popoli che sono i veri protagonisti della sua storia, è fin troppo cosciente della incredibilità di questo sguardo. In nome di tutti i popoli che sono la sua unica garanzia di credibilità ritiene (l’augurio di uno dei suoi membri, Eduardo Galeano, e’ stata la metodologia più rigorosa e condivisa) che gli orizzonti che coincidono con i bisogni concreti sono per definizione lontani, ma obbligano a camminare.
Gianni Tognoni, Segretario generale