Israele-Usa: messaggio di fine anno dalle “Democrazie Esemplari”
Gianni Tognoni, segretario generale del Tribunale Permanente dei Popoli
Articolo pubblicato su “Volere la luna”
La cronaca e le analisi di quanto sta succedendo da ormai più di due mesi tra Gaza e Cisgiordania sono talmente diffuse, pur nella profonda differenziazione delle interpretazioni, da non richiedere ulteriori contributi fattuali od analitici. Le prospettive aperte da Domenico Gallo sull’ultimo numero di Volere la luna rappresentano d’altra parte, ed in modo concreto per la precisione del quadro di diritto internazionale che viene proposto, le opinioni assolutamente maggioritarie che vedono come imprescindibile e non rimandabile la fine del massacro del popolo palestinese, come condizione minimale per pensare ad un futuro per il quale tuttavia le prospettive attuali non vanno al di là della ripetizione rituale di vecchie formule.
Chi non sembra aver dubbi, per un presente-futuro di perfetta continuità sono i due Stati ricordati nel titolo: il loro messaggio di fondo è per altro già chiaro, perfettamente annunciato e confermato: “‘le nostre decisioni sono affari interni dei nostri paesi-interessi”. L’arroganza-provocazione di questa posizione trova per altro un sostegno chiaro nella sostanziale connivenza della comunità internazionale degli Stati. Al di là delle votazioni a livello delle Nazioni Unite nulla di fatto si è mosso a livello concreto. Se si fa il confronto con quanto successo per l’Ucraina, sembra di essere abitanti-spettatori (cittadini?) di due mondi-epoche diverse. Non per nulla perfino le dichiarazioni della massime autorità delle Nazioni Unite, che hanno per la prima volta assunto toni e termini che rispondevano alla intollerabilità dei fatti e non alle regole sacre di neutralità della diplomazia, sono state oggetto di commenti più o meno di approvazione, ma non hanno trovato echi-conferme-conseguenze nelle posizioni concrete di critica precisa rispetto ai due Stati, che rimangono ufficialmente qualificati (almeno nella formalità diplomatica) come democrazie esemplari, le cui ragioni sono intoccabili.
Non è questa la sede per discutere. Per sapere dove siamo, e se e come qualcosa si deve pensare per il futuro, è necessario constatare le implicazioni di ciò che continua a divenire ancor più evidente. Le due democrazie che sono protagoniste degli scenari di Gaza e Cisgiordania certificano che non sono tenute a rispondere delle loro politiche. Il diritto internazionale non ha valore. La loro interpretazione della democrazia non include il rispetto neppure delle regole più elementari e antiche della guerra. Le nuove tecnologie di identificazione degli obiettivi mirano a rendere più efficace l’eliminazione delle popolazioni. Le migliaia di bambini, la distruzione degli ospedali, le condizioni minime della sopravvivenza sono parte integrale e inevitabile di una “risposta difensiva” ad un attacco che peraltro era stato anticipato e non si è voluto evitare. L’uccisione, certo non casuale, di tanti giornalisti e di poeti-intellettuali completa il quadro.
Si certifica in questo modo anche che una categoria tanto ambigua come quella di terrorismo può cancellare l’esistenza stessa di un popolo e della vita di tutti i suoi membri: le considerazioni umanitarie sono eccezioni non praticabili.
L’invocazione di un giudizio-competenza di una Corte internazionale (formulata in modo autorevole da più parti non istituzionali) riflette a questo punto una formalità da discutere in tempi e modi di cui è chiara la improbabilità, ed ancor più l’inefficacia: le discussioni sulla qualifica dei crimini che sono in gioco — di guerra, contro l’umanità, genocidio — assomiglia ad un dibattito politico-dottrinale che prescinde dalla concretezza delle stragi che si traducono solo in statistiche più o meno accurate dove i numeri sostituiscono e nascondono l’indescrivibile sofferenza-morte di non importa chi.
Le democrazie esemplari certificano che è sufficiente qualificare qualcuno come nemico per rendere irrilevante il suo essere un soggetto titolare di diritti inviolabili in quanto umano. Tutto un popolo può essere trasformato in ostaggio senza possibilità di trattativa: il crimine di cancellare la pace come ipotesi da percorrere non è perseguibile né invocabile.
Quanto è “certificato” nei fatti dalle democrazie più direttamente coinvolte, e da quelle che sono conniventi con le loro posizioni di osservatori o di alleati, nello scenario di Gaza e di Cisgiordania (la storia ed il diritto del popolo palestinese obbliga a non separare le due situazioni, per le vittime, e per le implicazioni che comportano se si vuole pensare ad una via di uscita) ha conseguenze tragiche per la credibilità di un “ordine internazionale”. Chi potrà più protestare-opporsi a quanto l’una o l’altra dittatura-potenza (più o meno travestita da democrazia: basta pensare alla Turchia, che si offre addirittura come mediatore, o alla Russia, o ai regimi di Myanmar, o dell’India rispetto al proprio interno o al Kashmir…) decidono di fare rispetto ad una realtà di popoli così facilmente qualificabili, in vari modi, come terroristi?
L’urgenza (di cui solo il popolo palestinese sa più direttamente il peso insostenibile, rispetto alla prospettiva di mesi simili a quelli vissuti: e che si sommano ai tanti anni di in-esistenza come interlocutori alla pari) di trovare soluzioni , è obbligatoria: ma può essere credibile solo se la protesta globale che si manifesta da parte della società civile diventa nucleo fondante di una presa di coscienza dell’urgenza di lungo periodo della comunità degli Stati di modificare a fondo i propri strumenti ed istituzioni.
I 75 anni passati dalla Dichiarazione universale dei diritti umani non possono essere “celebrati”: la guerra delle “democrazie esemplari2 certifica (…non da sola: ma come indicatore tragico di un disordine di civiltà) che il futuro dei “popoli”, non solo nei macro contesti geopolitici, ma all’interno di tutti i paesi, non può essere garantito dalle regole attuali. Dal suo piccolo osservatorio permanente, il Tribunale Permanente dei Popoli è stato testimone, insieme a tantissimi movimenti che sperimentano strategie di liberazione dai modelli sempre rinnovati di colonialismo, di quanti sono i vuoti e le omissioni di un diritto che è divenuto il garante violento di poteri sempre più dissociati dalla vita-dignità degli umani. I migranti sono il “popolo palestinese” più diffuso ed esposto ad un genocidio per stillicidio. Così come il popolo crescente dei diseguali, per una delle tante guerre. Di cui quella ambientale ri-dichiarata nell’ultima COP è uno scenario trasversale.
Non è purtroppo una realtà nuova. Gaza e Cisgiordania sono la certificazione, tragicamente attuale che è in gioco la credibilità minima di una civiltà che voglia essere umana. E forse non c’è modo migliore per chiudere queste riflessioni, che il rimandare ad un libro, pubblicato in Israele già nel 2006, da uno dei grandi protagonisti della storia recente di Israele, Avraham Burg, che è stato anche presidente della Knesset. La più grande sfida che lo Stato di Israele deve/sta affrontando coincide con il titolo: ‘Sconfiggere Hitler’. Non si deve permettere che la memoria profonda ed autentica della Shoah si traduca nella sua riproduzione, all’interno, ed ancor più negli scenari regionali ed internazionali: lasciapassare che giustifica ed obbliga a comprendere-perdonare tutti gli eccessi, dall’apartheid alla paranoia della sicurezza alla guerra.